Libro Settimo. Il Successo dell'Architettura nel Mondo (1988 - 2000)

 

IL MONDO DECOSTRUITO

LA MOSTRA DEL DECOSTRUTTIVISMO A NEW YORK


 Nel novembre del 1988 si apre a New York una mostra dal titolo Deconstructivist architecture. L’esposizione ha come grande ispiratore Philip Johnson e come curatore il più giovane Mark Wigley. È una perfetta rappresentazione di come, quando si è al centro dei sistemi mediatici della cultura e si hanno argomenti, si possono influenzare gli orientamenti futuri del dibattito architettonico. 
 La mostra presenta sette personalità. Innanzitutto, Peter Eisenman, che è di fatto quasi un coautore dell’intera operazione culturale, Zaha Hadid, che non aveva ancora realizzato nulla, e Frank Gehry, che però, partecipa un poco distrattamente. Dell’esibizione fanno anche parte Coop Himmenb(l)au, un sodalizio tra gli architetti austriaci Wolf D. Prix, Helmut Swiczinsky and Michael Holzer, attivi nel filone dell’architettura radicale già dalla fine degli anni Sessanta, Bernard Tschumi, che aveva realizzato Parc de la Villette a Parigi, Daniel Libeskind e Rem Koolhaas
 L’operazione di politica culturale della mostra si rivela vincente e dà una decisa sterzata al dibattito architettonico degli anni a venire.
 Tra le molte componenti del successo dell’operazione (la ristrettissima selezione e il valore delle personalità invitate, la centralità e il prestigio del Moma di New York, la stanchezza del dibattito post-modern e la pochezza di interesse architettonico degli edifici realizzati, il ruolo, l’esperienza e l’autorità di Johnson e l’applicazione intelligente di Mark Wigley) vi è senz’altro l’invenzione del nome, che, da una parte, richiama il pensiero del filosofo francese Jacques Derrida, il più famoso teorico della Decostruzione filosofica, o, come era stata definito per alcuni anni, Post-strutturalismo, e dall'altra allude alla creazione di un nuovo "ismo", un nuovo stile. Quest'ultimo punto è quello che veramente preme a Johnson, convinto che il rinnovamento delle forme sia necessario a mantenere in tensione l’architettura e consentirle di avere peso nella società. L’idea di decostruzionismo come “stile”, nonostante sia ovviamente aborrita da tutti i partecipanti, ha una sua maniera di incidere sui media e sulla stampa. 


UN MONDO APERTO 

 Sono anni di grandi e veloci cambiamenti. Lo spartiacque che segna l'arrivo di una nuova epoca storica si ha con il crollo del muro di Berlino, nel 1989. 
 L’apertura dei blocchi porta ad un cambiamento della carta geografica e dei confini. Questo cambiamento, insieme all’apertura di nuovi mercati, dà una grande accelerazione alla globalizzazione dell’economia. Diventa ormai palese che si vive in una fase storica diversa non solo dal punto di vista della geopolitica, ma anche da quello strettamente economico. 
 È in questo quadro che assume una particolare rilevanza l’affermazione, proprio a Berlino, di un giovane architetto ebreo americano di origine polacca. 


LINEE E FRECCE. IL LAVORO DI DANIEL LIBESKIND 

 Libeskind è un architetto di nuovo stampo, che vive dentro più culture, più storie, più discipline. Si avvicina all’architettura dalla musica e dall’arte e si forma in quella fucina che è la Cooper Union di New York. 
 Nella metà degli anni Ottanta è uno sperimentatore del tutto eccentrico. Realizza una serie di grandi macchine astratte, esibite in Italia grazie ad Aldo Rossi. Libeskind associa a queste macchine dei disegni astratti, una specie di partiture musicali che lavorano sulla forza rappresentata della linea, e, cioè, sulla capacità di rompere, di estendersi, di non racchiudersi nei “piani” della tradizione puramente funzionalista o neoplastica della linea e del suo vivere. 
 Linee e macchine astratte gradualmente si calano in architettura. Realizza una straordinaria proposta per l’Iba berlinese, il City Edge del 1987, un edificio ad andamento lineare e multifunzionale nel programma che crea ambiti per la città nell’intreccio tra i corpi e nella sovrapposizioni delle funzioni. Nel progetto si inserisce contemporaneamente un'interpretazione del concetto di stratificazione e layer, originale perché se certamente debitrice dal ragionamento di Eisenman sui palinsesti, è anche autonoma. In Libeskind il layer assume una forza drammatica. Non è lo strumento per alcun tipo di ricomposizione, ma è la presentazione del dramma di un mondo che non può e quindi non deve più rimettere insieme i pezzi. 


 In questo contesto di ricerca elabora il suo capolavoro, la nuova ala del Museo Ebraico di Berlino. Il museo si trasforma in una linea spezzata e obliqua sul suolo, prima compressa nel racchiudersi degli angoli, poi slanciata come una freccia aperta verso l’infinito. L’edificio parte dalla sede del museo preesistente e si muove zigzagando sul terreno. A questa freccia si sovrappone un’altra figura rettilinea che la incrocia in più punti e la mette in ulteriore tensione. Gli spazi interni procedono linearmente, ma gli incroci labirinticamente si aprono a nuove possibilità. Altre linee diagonali e laceranti tagliano i volumi, vi girano attorno, rivelano intensamente la luce e aprono scorci negli interni dall’esterno metallico. 


IL RUOLO DELLA COMUNICAZIONE E DELL'INFORMAZIONE 

 Nel 1980 il sociologo statunitense Alvin Toffler scrive un libro intitolato La Terza Ondata. Qui sosteneva che, dopo una fase della storia dell’umanità caratterizzata dal possesso della terra e dalla produzione di beni agricoli e una seconda fase caratterizzata dal modello di produzione industriale, si era ormai in una “terza ondata” caratterizzata dal possesso e dal ruolo cruciale dell’informazione nei processi economici e nell’intera società. 
 Il fenomeno non riguardava solo la produzione dei beni informativi veri e propri, ma investiva anche la produzione dei beni materiali tradizionalmente intesi. L’informazione, spiega Toffler, è ciò che rende competitivo qualunque bene. L’informazione è il valore aggiunto di un bene sia materiale, sia, ovviamente, immateriale. 
 Ragion per cui, se il valore per l’architettura degli anni '20 del Novecento era l’avvicinarsi alla macchina (nei funzionamenti, nei processi, nell’estetica, nella stessa esposizione dei propri meccanismi sintattici), l’architettura alla fine del Secolo comincia a spostare il suo centro d’interesse all'avere una forma che informa e che entri a fare parte del grande mondo della comunicazione contemporanea. 


METAFORA COSTRUITA E NOMINATA. IL MUSEO KIASMA DI HOLL


 La vicenda che porta alla realizzazione del Museo Arte Contemporanea di Helsinki denominato Kiasma, oltre al valore intrinseco dell’opera, è una chiave interessante per capire il discorso sulla centralità della comunicazione nell’architettura degli anni Novanta.
 Holl ritiene che il progetto debba basarsi su esperienze dirette: percorrere, scoprire i flussi, sentire la luce e i materiali dell’architettura. In Holl vi è una spiccata consapevolezza sul ruolo che spazi aperti ed edifici giocano l’uno con l’altro per creare l’insieme del progetto. Studia quasi scientificamente deformazioni, angoli, campi di risonanza. Infine, c’è la ferma convinzione che un progetto si debba basare su un’idea forza.
 A proposito del museo di Helsinki, Holl racconta di aver redatto trenta ipotesi alternative e di aver scelto quella presentata solo dopo un’attenta verifica dei pro e contro rispetto alle altre. Così, rilevanza dell’idea sintetica, uso degli spazi vuoti, rimandi metaforici, ancoraggio al sito e all’esperienza del vivere si ritrovano anche in questo museo. 
 Il Museo Kiasma si colloca in un’area centralissima di Helsinki ed è stato a lungo voluto e perseguito, ma realizzato solo in un’ampia concertazione tra la Galleria Finlandese di Arte, lo Stato e la Municipalità. Il progetto colpisce innanzitutto per l’intelligenza e l’originalità dell’inserimento nella complessa intersezione urbana in cui si colloca: un’area triangolare posta tra il parlamento neoclassico a ovest di Joseph Siren, la stazione ferroviaria di Eliel Saarinen a est e la Casa Finlandia (sede di congressi internazionali di Aalto) a nord. Il Museo Kiasma viene a completare così il disegno urbano che Alvar Aalto aveva previsto per le sponde del lago Kamppi. 
 Il progetto risulta composto da due corpi intersecanti: uno rettilineo sul fronte stradale ed un secondo a galleria, incastrato al primo. Il corpo a galleria richiama sottilmente il tema della circolazione sia ferroviaria che automobilistica e si arcua avvolgendo il volume prismatico. La galleria varia anche la sua dimensione trasversale perché inizia con una parte stretta come una coda verso la città, e finisce con una grande bocca che sembra risucchiare la Casa Finlandia di Aalto. 
 Le superfici esterne, ora vetrate, ora rivestite in panelli di alluminio, la grande volta della galleria in zinco contro la regolarità del corpo prismatico, soprattutto il raccogliere, trasformare e rilanciare i flussi viari e la presenza dei fabbricati limitrofi fanno comprendere come, nel vocabolario asimmetrico, leggero e dinamico di Holl, vi siano le chiavi per una risposta adeguata e allo stesso tempo innovativa. 
 La chiave del progetto sta proprio nel nome, Chiasma. Parte dall’esterno, dalle forze della città, per manipolare i volumi del museo e da questa imposizione e inversione rispetto alla funzione contenuta inventa nuove dinamicità e spazialità. I flussi si incrociano come nervi, concettuali e fisici, e dal loro intreccio nasce l’architettura. 


POTSDAMER PLATZ E LA RICERCA DELLA MIXITÈ

 Gli anni Novanta del Novecento vedono l’affermazione ormai matura di una società "post-industriale", o dell’informazione, di cui abbiamo visto l’impatto nell’architettura. Se il centro propulsore della città industriale era la grande industria e la macchina, della seconda sono i luoghi del terziario. Questo cambiamento di quadro innesca cambiamenti importanti anche nel campo dell’urbanistica e della città.
 Due grandi questioni assumono rilevanza.  La prima è quella delle cosiddette brown areas, o aree dismesse, che rappresentano un campo fondamentale di opportunità. Si tratta di estesissime aree, spesso anche centrali, che vengono progressivamente svuotate dagli usi industriali perché le produzioni si miniaturizzano o si dislocano in altre parti del pianeta sfruttando il diverso costo della mano d’opera. La seconda questione ruota su una riconsiderazione dei rapporti architettura-natura, perché la nuova società dell’informazione può storicamente riconsiderare i rapporti con la natura ed operare con grandi risarcimenti di naturalità gli ambienti urbani e gli ambienti naturali devastati di tante parti del pianeta.
 Sempre nella stessa Berlino che ha visto sorgere il museo di Libeskind, e in un clima di rilancio di grandi interventi in rapporto alla riunificazione della città, si indicono a partire dal 1991 una serie di concorsi per la ricostruzione di un’area abbandonata e sotto utilizzata. al confine tra le zone est ed ovest della città. Il Renzo Piano Building Workshop si afferma nel concorso indetto nel 1992. 
 Una delle conseguenze dalla civiltà dell’informazione è il ribaltamento del concetto di zoning che aveva presieduto all’idea di città elaborata dal funzionalismo. Lo zoning corrispondeva ad una idea di città rigidamente divisa in tempi e spazi. In alcune zone ed in alcune ora si lavora, in altre si risiede, in altre si svolgono attività direzionali, o del tempo libero. Ma la società dell’informazione, ormai arrivata a piena evidenza, si basa sull’assunto opposto, in quanto combina, sovrappone e intreccia funzioni che prima erano necessariamente divise. 
 Ormai si può lavorare ovunque e allo stesso tempo avere tempo libero; svolgere attività direzionali insieme a quelle commerciali. E, naturalmente, la stessa funzione residenziale non ha più bisogno di essere “separata”, ma può unirsi alle altre anche perché verde, natura, elementi paesaggistici, si intrecciano nelle nuove parti di città “anti-zoning”. Il concetto di “mixité” da una parte comporta la combinazione delle funzioni e dall’altra implica la compartecipazione tra il capitale privato e quello pubblico nella creazione dei progetti. 
 Renzo Piano agisce con sempre maggiore forza su due fenomeni strettamente collegati. Innanzitutto, Piano sa che la città contemporanea ha bisogno di “informazione” non solo come prodotto, ma anche come simboli e immagini, ed è anche tra i principali propugnatori di un’idea di città "anti-zoning", e cioè di una città i cui flussi si integrano, le funzioni si ricombinano, gli spazi si complessificano e il verde e la natura riprendono il posto al centro del progettare risarcendo i vecchi contesti. 
 Il Potsdamer Platz è il progetto chiave per la risonanza internazionale dell’idea. È infatti un importantissimo crocevia urbano della Berlino precedente alla ricostruzione mondiale. L'architetto non ricorre alla rigida formazione blocco-strada proposta per l’Iba berlinese, né ad un totale svincolamento dei blocchi edilizi dalla strada, ma intreccia i due approcci. Lui stesso progetta la piazza Marlene Dietrich e gli edifici adiacenti giocando con i vuoti, con la ricerca di aperture verso la limitrofa biblioteca nazionale, innestando elementi di sorpresa e novità, facendo intervenire pezzi di un sistema naturale che si intrecciano a quelli architettonici. 



PARIGI E BARCELLONA. IL LAVORO DI MIRALLES E PINOS 

 In questi anni di grande importanza della comunicazione, le città entrano in competizione per affermare l’efficacia e la forza del loro potere economico e riuscire ad attrarre sempre più persone  per diventare centri pulsanti di attività come cultura e tempo libero. Parigi è a capo di questa tendenza. Proprio qui gli anni Ottanta e Novanta sono stati caratterizzati dalla realizzazione dei cosiddetti Grands Projects: l’Arco de La Defense, il Museo del Louvre di I.M Pei, il Teatro dell’Opera della Bastiglia, l’Istituto del Mondo Arabo, il Parco della Villette di Bernard Tschumi, la Città della Scienza e dell’Industria, lo Zenith o la Città della Musica di Christian de Portzamparc.
Varie sono le tendenze: da una parte vi è il mega geometrismo di I.M Pei al Louvre e di Von Spreckelsen all’Arco de La Defense o il neo brutalismo del Ministero delle Finanze di Chemetov-Huidobro o di Ott nell’Operà mentre sensibile alle relazioni tra ambiente urbano ed architettura è la Città della Musica di Portzamparc. Nel territorio metropolitano emergono per qualità i complessi residenziali di Gaudin e di Ciriani, le scuole di Duspain-Leclerq e Soler e una serie di realizzazioni dell’architetto italiano Massimiliano Fuksas
 Insieme a Parigi, anche Barcellona afferma questo rilancio dell’architettura come nuova guida dei sistemi comunicativi ed economici della città contemporanea.
 La Spagna sperimenta una esplosione di vitalità straordinaria nel campo delle arti nei primi anni Ottanta e diffonde una straordinaria voglia di vivere, di fare e di operare. Culturalmente era stata abbastanza vicina alle esperienze italiane che si diffondevano da Milano attraverso il lavoro di Gardella, Albini, BBPR e che aveva avuto nelle due testate “Domus” e “Casabella” degli importanti elementi di diffusione e confronto. 
 Già dagli anni Sessanta opera Oriol Bohigas, realizzando in particolare molti e interessanti interventi di edilizia pubblica. A lui il sindaco Josep Martorell dà l’incarico di guidare la trasformazione urbana della città sfruttando l’occasione delle Olimpiade del 1992. Bohigas mette mano con decisione ad opere fondamentali come la riconquista del rapporto tra città e mare per far posto alle strutture olimpiche ed a un grande boulevard urbano. Verso le colline che attorniano la città disegna un'autostrada che mostra nuovi modi di trattare il verde: crea spazi per il tempo libero nei suoi vari livelli e fa comprendere come tra infrastruttura viaria e città vi possa essere uno stretto rapporto.
 In questo contesto trovano nuovo spazio anche i giovani architetti. Tra questi lo studio di Eric Miralles e di Carmen Pinos, i quali realizzano subito un’opera libera da ogni pregiudizio con la tradizione locale e che guarda in direzioni del tutto nuove con una appropriazione, pertinente e in parte originale, di alcuni temi posti in evidenza per prima dalla Hadi e che viaggiavano nel pensiero che cominciava a pensare l’architettura come metafora del paesaggio. L'opera di esordio è il municipio Hostalets de Balenyà nei pressi di Barcellona (1986-1992). 


 I due livelli che compongono l’edificio si innestano secondo due direttrici che permettono una dinamica presenza dei fabbricati nell’ambiente, e contemporaneamente la penetrazione della luce anche ai livelli inferiori. La rampa di accesso assume una grande rilevanza nel gioco saettante delle forme così come le pensiline che si sporgono liberamente svincolandosi dai corpi di fabbrica sottostanti. 
 Questa ricerca va avanti con grande energia nel Centro di tiro dell’arco di Barcellona (1989-1992) che ha fatto parte delle attrezzature per le Olimpiadi del 1992. Qui il complesso si articola a raggiera secondo l’andamento della luce solare. I corpi di fabbrica hanno un andamento sinuoso sia in pianta che in alzato e presentano una serie di scorci e di incastri volumetrici riusciti. 



 L’opera che più connota la ricerca di Miralles e Pinos in questi anni, però, è il Cimitero di Igualada, realizzato tra il 1991 e il 1995. Si articola su un percorso ascensionale e processionale che accompagna il feretro dall’arrivo alla sepoltura ed è accompagnato da significativi eventi, come l’inclinazione a mo’ di muro contenimento delle falde di terra dei loculi, i muri e parapetti in pietra trattenuta da reti di ferro. L’architettura-orografia assume qui un volontario aspetto dimesso, come in attesa di essere erosa dagli elementi naturali e trasformata nei processi di invecchiamento dei materiali usati. 


 

BIOSPHERE 2 E IL TEMA ECOLOGICO 

 Miralles e Pinos sono tra i primi architetti che costruiscono, nei primi anni Novanta, opere che rendono evidente alcune idee fondamentali di interscambio tra paesaggio e architettura anticipate da Zaha Hadid nel 1983. In questa fase, però, questa architettura-paesaggio rimane ancora solo una premessa a discorsi effettivamente ecologici. È perciò importante segnalare il completamento nel 1991 di una straordinaria opera di ingegneria e scienza ecologica insieme, ossia il progetto Biosphere 2 nel deserto dell’Arizona che ha in John Allen, geologo professionista, l’ideatore principale e nell’architetto Margaret Augustine e nell’ingegnere dei sistemi William Dempster alcuni dei co-protagonisti dell'impresa. 


 Allen realizza un progetto a immagine e somiglianza della biosfera terrestre: un insieme interagente di forze geologiche, ecologiche e umane formato da sette biomi che servono a studiare fenomeni sistemici e, allo stesso tempo, a sperimentare modalità future di vivere nello spazio. Il sistema sigillato di Biosphere 2 può funzionare se vi è una “ecologia” in equilibrio dove ben studiate percentuali di piante, microbi, acqua, animali e aria sono in un ciclo di continua rigenerazione. Attraverso una complessa ricerca si determina così un ambiente all’interno di grandi superfici vetrate che coprono otre un ettaro di superficie. Dentro questo ambiente vengono creati i sette biomi in equilibrio. 




NUOVE SCOPERTE

SANTIAGO CALATRAVA 

 In questi anni emerge un talento che rinvigorisce e sposta in direzioni del tutto inaspettate la tradizione dell'ingegneria. Si tratta di Santiago Calatrava.
 Nel 1981 apre uno studio a Zurigo, partecipa a concorsi e ha le prime commesse in Spagna e in Svizzera. Vince già nel 1984, giovanissimo, il concorso per la stazione di Stadelhofen di Zurigo, la cui realizzazione lo proietta nel circuito internazionale e gli permette di ottenere prestigiosi incarichi. 
 Per Calatrava, calcolo e conoscenza tecnica sono necessità di approfondimento di una vocazione tutta artistica. In un caso la forma è la sublimazione più alta del calcolo, nell’altro il calcolo è lo strumento per ottenere la forma. Ancora prima di essere costruttore è infatti scultore e rinfresca la complicità e l’interdipendenza che scultura e architettura avevano nell’opera di maestri come Michelangelo, Borromini e Bernini. 
 Nella stazione Stadelhofen, la sua prima opera importante, Calatrava rileva il suo essere un progettista di sezione. La sovrapposizione piani e il progressivo alleggerimento dei materiali e delle strutture è pensato come l’elemento tipico dell’edificio che ne risolve gli aspetti funzionali, estetici, strutturali e la relazione con il terreno. La sezione tipo viene duplicata, con le necessarie modificazioni. Nelle grandi coperture si va trasformando anche dimensionalmente per seguire l’andamento a conchiglia degli spazi, mentre qui è semplicemente duplicata per 270m con una leggera rotazione per seguire l’andamento dei binari. 



IL MOVIMENTO

 Santiago Calatrava è uno straordinario innovatore su un tema centrale e nuovo: quello del movimento reale delle strutture. 
 Sia se le sue costruzioni si muovano effettivamente (come il Padiglione del Kuwait per l’esposizione di Siviglia del ‘92 o quello progettato per le celebrazioni della confederazione elvetica a Zurigo o la realizzazione di un Padiglione e Museo dell’Acqua a Milwaukee) sia che esse siano ferme suggeriscono sempre la possibilità del movimento.
 Il suo studio sulle architetture semoventi ha inizio sin dalla dissertazione e sperimentata nelle costruzioni a partire dalle porte pieghevoli dei magazzini Ernsting, in cui ogni asta che compone la chiusura, ruotando lungo una linea curva, si apre e si chiude come le ciglia dell’occhio ottenendo un notevole effetto di tridimensionalità dinamica.

 

REM KOOLHAAS    

 Un altro architetto che si è formato attraversando più discipline (cinema, arte, e soprattutto il giornalismo) è l’olandese Rem Koolhaas
 Nel 1977 pubblica un libro chiave per il suo lavoro e per parte del dibattito successivo. Delirious New York analizza la metropoli americana per com'è e per come si possa operare assumendone la realtà economica, sociale e artistica come dato di fatto, senza proiettare sulla città un occhio “ideologico”. Frammentazione e simbolismo, il principio base di questa lettura urbana è l’accettazione del principio sommatorio e additivo che, dal capitale, si trasmette alla regole formative città. Alla base di molte architetture di Koolhaas vi è il stesso principio, spesso rivelato chiaramente nei famosi disegni sintetici che OMA elabora per i progetti. 
 Koolhaas realizza la Casa dell’Ava a Parigi basandosi su una serie di principi sommatori, analitici, anti-graziosi, che staccano i vari corpi e le parti del programma che sono i medesimi che usa anche per il masterplan per Eurolille. L’idea del progetto di Eurolille è di avere una grande piastra inclinata, una sorta di nuova piazza, attorniata da edifici e grattacieli e da un intrigante progetto sotterraneo che realizza lui stesso. Contemporaneamente, sempre con lo stesso approccio, crea una serie di opere che saranno abbondantemente riprese a molti architetti negli anni successivi, ma l’opera che assume grande rilevanza è la casa Floriac a Bordeaux del 1998. Qui l’architetto si confronta con un cliente portatore di handicap motori. Koolhaas affronta la crisi e trova un'ingegnosa soluzione: invece di ricorrere alla quasi ovvia circolazione attraverso una rampa, decide di far muovere una parte stessa della casa. Una ampia parte del solaio si solleva e si abbassa su un pistone idraulico, in modo che lo studio principale del proprietario possa collegarsi e accedere ai diversi livelli della casa. 
 Con questa opera Koolhaas si afferma come uno degli architetti più forti di questi anni.



NUOVE TRASPARENZE E SUPERFICI PROFONDE 

 Emergono in questi anni due opere che determinano ancora nuovi parametri del progettare. Il tema è quello della superficie e della bidimensionalità, che, in questo contesto, assume profondità inaspettate. 
 La prima opera è la fondazione Cartier a Parigi, completata nel 1994 dall’architetto francese Jean Nouvel. Il largo uso del vetro e di superfici trasparenti potrebbero, ad una prima vista, far assimilare l’edificio ad un'aggiornata applicazione dei canoni del funzionalismo, mentre in realtà ne costituisce il superamento.


 Jean Nouvel lavora dagli anni Settanta del Novecento ed ha frequentazioni con l’ala più interessante della ricerca d’avanguardia francese (Block e Parent). Già alla metà degli anni Ottanta ha costruito l'edificio per l’Istituto del Mondo Arabo a Parigi, una delle opere più riuscite dei Grand Projects, un edificio dove due corpi (uno ad andamento curvilineo ed uno rettilineo) creano spazi interni e relazioni urbane interessanti. Ma è con la fondazione Cartier che Nouvel affronta un tema veramente nuovo, ossia l’uso illusionistico e superficiale della trasparenza. Per la prima volta, la trasparenza è legata all’allusività dei media e alla pluralità volutamente ambigua del messaggi contemporanei. 
 Nel gioco degli schermi fluttuanti, la trasparenza nell’epoca dell’informazione e nelle mani di Nouvel diventa un fenomeno profondamente diverso dalla rivelazione oggettiva del mondo del funzionalismo.
 La seconda opera è la Cabina di manovre ferroviarie rivestito di rame, realizzata da Herzog & de Meuron a Basilea nel 1994. 
Questa opera è l’opposto della trasparenza di Nouvel. Si presenta infatti come un volume scatolare, ma le cui tessiture, vibrazioni e angoli smussati rivelano la presenta del tema della pelle in una dimensione ancora mai colta in questi accezione. La luce non è più trasparente rivelazione del mondo, ma portatrice di messaggi sempre mutevoli negli schermi televisivi o nei computer e la superficie materiale dell’architettura, più che semplice chiusura, diventa una vera e propria interfaccia. 



SPAZI NUOVI 

 L’architettura ormai in questa fase si incunea, rammaglia, attraversa ed è continuamente attraversata dal già esistente. Una delle opere degli anni Novanta che più vivamente definisce questo concetto è il Centro Le Fresnoy, completato da Bernard Tschumi nell’ex regione carbonifera della Francia nord-occidentale. L’edificio si propone come Bauhaus del XXI secolo. È infatti insieme una scuola d’avanguardia e un centro di produzione che contiene anche un centro di risorse multimediali, due cinema, un auditorium, studi di fotografia e musica, una grande sala per performance e mostre, una biblioteca, uffici amministrativi, ristorante e molti laboratori. 


 A Le Fresnoy, senza tralasciare il carico di rimandi all’arte, alla filosofia, alla musica e al cinema contemporanei, Tschumi scopre una nuova potenzialità degli spazi interstiziali. La novità, invece, consiste nel basare il progetto sulle potenzialità della sezione. 
 Affascinato dalla spazialità interne create dalle capriate delle fabbriche esistenti, decide di non abbattere i fabbricati, ma di sovrapporvi una nuova grande copertura che li riunisce sotto un unico manto. Tra il nuovo tetto metallico e quelli preesistenti ricoperti in laterizio si apre uno straordinario spazio interstiziale, carico di fughe prospettiche divergenti ed intensamente abitato da camminamenti, entrate alle aule nei sottotetti e anche di luoghi per sostare. 



PROCESSI DI PROGETTAZIONE IN PETER EISENMAN

BLURRING 

 In questi anni due architetti americani assumono una posizione fondamentale di catalizzazione del dibattito: Frank Gehry e di Peter Eisenman
 Alle scoperte delle griglie che rappresentano delle effettive acquisizioni portanti del suo lavoro, Peter Eisenman aggiunge una tecnica di grande fascino perché dà una risposta innovativa ad un vecchio problema della nuova architettura: il movimento
 Le prime architetture che tenteranno di affrontare il tema del movimento saranno quelle dell’italiano Antonio Sant’Elia, che fanno perno su ascensori in vista, strade che si intersecano agli edifici di centrali elettriche o fabbriche, ma è ancora una volta con il Bauhaus di Walter Gropius che l’evidenza di come un edificio possa essere percepibile solo attraverso il movimento diventa paradigmatica (perché l’idea delle masse distinte disposte centripetamente nello spazio si associa alla scoperta della trasparenza). 
 l problema di come traslare il movimento in architettura rimane dopo il 1925 senza sostanziali sviluppi. Eisenman, attraverso il suo incessante cercare, scopre una tecnica che mai prima di lui aveva avuto uso in architettura. Si tratta del Blurring, sfocamento. Il movimento non viene “interpretato” attraverso la fluidità della rampa del Guggenheim o l’aprirsi e chiudersi delle membrane del Padiglione alla Swissbau, ma diventa l’ispirazione “concettuale” e allo stesso tempo la “tecnica” con cui organizzare un nuovo modo di progettare. 
 Il Blurring fa la sua prima apparizione in un progetto di casa unifamiliare redatto nel 1988. Si tratta della Casa Guardiola a Santa Maria del Mar, sulla costa spagnola di Cadice. Nel testo che accompagna il progetto, Eisenman parla del concetto classico di topos come segno stabile dall’urbanesimo militare romano. Disegna la casa sul movimento ondulatorio di una “L”. Le geometrie che ne derivano, vibrano, dondolano, ruotano una sull’altra in pianta, sezione, alzato. Attraverso questi movimenti si vengono a creare, a volte con l’Incastro, a volte con la Sottrazione, altre con l’Intersezione, gli spazi. Si forma così il percorso che attraversa, scendendo, la costruzione. 



CAVI AUDACI PER INSEGNARE 

 L’edificio che deve contenere una facoltà di architettura è un tema ricorrente negli Stati Uniti. Architetti di varie epoche (a partire da Thomas Jefferson) si sono incontrati con questo programma. 
 Eisenman affronta questo tema in un progetto (College of Design Architecture and Planning, Università di Cincinnati) che comincia a studiare alla metà degli anni Ottanta, ma che giunge a maturazione solo nel 1991 in un rapporto, questa volta, aperto a studenti, professori, amministratori e amici del college. Qui vengono usate in un programma complesso alcune delle idee che ha sviluppato negli ultimi anni, come, ad esempio, l’idea dell’incunearsi tra strutture esistenti. 
 Il progetto doveva rispondere ad una doppia esigenza: riorganizzare gli spazi della facoltà esistente e poi edificare altre attrezzature (biblioteche, sale mostre, teatri, studi, uffici) che ne raddoppiasse quasi la superfici utile. 


 L’idea geniale scatta dopo il progetto di Casa Guardiola e consiste nell’applicare la tecnica del Blurring simultaneamente al nuovo fabbricato ed a quello preesistente. Entrambe le geometrie di base vengono duplicate e ruotate. Nasce così un moto ondulatorio doppio: uno più geometrico (quello del vecchio edificio), l’altro più fluente, determinato dalla curva in cui si organizzano le nuove funzioni. Qui movimenti di traslazione e ondulazione delle due geometrie conformano l’interno, in spazi che danno effettivamente forma ad un pensare all’architettura con una forza e una complessità finalmente adeguata ai mezzi che si vanno creando in questi anni di fine Novecento. 


REBSTOCK PARK. PLASMARE LA CITTÀ

 Un progetto urbano ricco di implicazioni sempre redatto da Peter Eisenman in questi stessi anni è per Francoforte. Nel progetto del quartiere residenziale di Rebstock Park si nota come alcuni meccanismi di sviluppo, come quelli del folding (piegatura), graft (innesto) e scaling (riduzione/allargamento), contribuiscono a creare uno spazio urbano molto ricco, soprattutto per gli abitanti. 
 La prima idea è che l’architettura residenziale non è solo quantità, ma crea essa stessa l’immagine della città. Il terreno si deve trasformare da lastra su cui poggiare volumi, in un insieme da progettare attentamente come un insieme compatto in cui interagiscono spazi, strade, edifici, sistemi verdi e lastricati per contrapporre alla discontinuità la continuità tra uno spazio e l’altro. 
 Eisenman usa a Rebstock Park il concetto di tessuto e la griglia ordinatrice, ma li rafforza con la propria idea dei tracciati urbani e degli sterri. Alle griglie ortogonali tradizionalmente adoperate nei sistemi insediativi bassi ad alta densità sostituisce tre tracciati tra loro diversi: il primo a maglia larga, un secondo a trama fitta di un’area limitrofa ed un terzo che segue i confini ondulati dell’area di progetto localizzata tra gli anelli viari del cosiddetto “terzo anello verde” di Francoforte. I tre sistemi entrano in tensione. I vertici del terzo sistema si congiungono a quelli ortogonali deformando le linee perpendicolari in una serie di spezzate, creando così un campo deformato. Le strade seguono le linee del sito che declina leggermente e creano scorci continuamente variati. I corpi edilizi (lineari, organizzati a corte o con un interessante sistema a doppia “C” nei blocchi alti sul margine settentrionale) si deformano per seguire l’andamento della rete dei percorsi, ma allo stesso tempo si disconnettono dalla geometria base per rispondere alle altre forze dei tracciati con improvvisi tagli o con la fuoriuscita di corpi triangolari. 
 Il risultato è un ambiente ricco di strutturate eccezioni e che risponde, al contempo, a tutti i canoni della moderna funzionalità urbanistica. 



SPAZIO SISTEMA IN FRANK GEHRY

DANZE D'ARCHITETTURA

 Il modo di progettare di Frank Gehry presenta una sorprendente combinazione tra due arti: da una parte, gli spazi vengono concepiti come una scena teatrale, mentre dall’altra, i personaggi-volumi delle sue architetture sembrano parlare, muoversi, ballare, trasformando così la scena. 
 Gli spazi così progettati sollecitano a vivere, a conoscere, a usare gli edifici in maniera aperta, gioiosa, libera. Ne è un esempio la Francis Goldwyn Library


 Nel piccolo e bloccato palcoscenico dell’area, nasce uno schema simmetrico con una grande navata al centro e le ali di lettura ai lati ed un trattamento esterno ad intonaco bianco. All’interno vince la luce e la relazione tra gli ambiti di altezza diversa, all’esterno una composizione pacata. Alla fissità di Kahn, Gehry sostituisce la pausa. Il grande portale centrale è affiancato dai due corpi più bassi delle aule di lettura, le quali sono scomposte in blocchi semplici che rivolgono le aperture a nord. Sembra una composizione simmetrica, ma, in realtà, i corpi delle aule formano una figura aperta che determina una sottile tensione dinamica. Qui la danza della architettura di Gehry è, per un attimo, ferma in una pausa di riflessione, per poi riprendere a muoversi in due residenze private realizzate nella metà degli anni '80. 



TRAIETTORIE NELLO SPAZIO 

 Mentre Eisenman è interessato alle sperimentazioni legate alla bidimensionalità della pittura, Gehry, da sempre, è attratto dalla scultura. Proprio questo rapporto con la scultura diventa uno sforzo possente nel sagomare masse sinuose e dinamiche che rimbombano nell’aria e deformano lo spazio circostante. 
 Tutto questo si concretizza in un progetto della fine degli anni '80 del Novecento che apre una nuova fase di Gehry: il piccolo Museo della Vitra in Germania, collocato a ridosso della fabbrica e degli uffici della ditta di mobili. Un edificio a pianta rettangolare, ma in cui tutti gli elementi apparentemente accessori (scale, rampe, lucernari, tettoie) si incastrano uno sull’altro, collidendo sulla scatola di base. Alla tecnica dello spaziare e del dividere che avevano caratterizzato altre sue sperimentazioni, si sostituisce ora il movimento opposto: un collidere e scontrarsi delle parti. 
 Il collidere dei pezzi sul nucleo centrale comporta due conseguenze: da una parte, il progetto tende alla monomatericità nella scelta dei materiali; dall’altra, si vengono a creare ancora più spettacolari spazi interni, fluidi ed interconnessi, che caratterizzano le sue opere. 



AUDITORIUM DISNEY 

In due progetti, il Museo Guggenheim di Bilbao (1991-1997) e la Walt Disney Concert Hall a Los Angeles (1989-2003), è tutto un canto alle superfici curve, alle traiettorie che da rette si inarcano nello spazio. 


 La Walt Disney Concert Hall di Los Angeles (il principale della città e uno dei più importanti al mondo) è un’opera di elevata complessità: da una parte vi è la necessita di trovare soluzione alla grande sala per 2400 persone, dall’altra bisogna comprendere come articolare gli spazi accessori, in quanto il progetto si deve misurare anche con l’intorno cittadino: un intero isolato localizzato a Bunker Hill, l’area culturale del centro città. 
 A partire dallo schema elaborato nel 1988, il progetto è stato studiato in numerose versioni alternative. La sala concerti, originariamente collocata su un angolo dell’isolato, viene spostata al centro. Gli spazi aperti, risolti attraverso una grande copertura a serra, vengono ad incunearsi tra le pieghe che i locali accessori creano attorno alla sala e le funzioni commerciali e ricreative localizzate nel foyer funzionano anche indipendentemente dalla sala concerti. 
 L’accesso principale è posto all’angolo dell’isolato davanti il Centro musicale già esistente e conduce, con un doppio sistema scala-rampa, ad una piazza rialzata e poi al grande atrio. Qui i pilastri si arcuano a sorreggere le lastre ondulate che definiscono l’esterno. Dal basso sbucano le scale mobili a sei livelli del garage interrato, lungo le quali sono ospitati altri eventi artistici ed espositivi. 
 La grande sala concerti è speculare sul suo asse longitudinale. I requisiti acustici sono risolti con un sistema di listelli arcuati che forma rigonfie vele pendenti dal soffitto; un grande organo-scultura è posto nella gradinate dietro l’orchestra e due asole vetrate fanno penetrare nella sala la luce naturale elasticità del processo e rende attivo il dialogo con le forze esterne allo studio (committenti, municipalità, consulenti, ecc.). 



UN'OPERA CHIAVE 


 Il Museo di Bilbao è una delle opere più importanti della fine del XX secolo. Si colloca in un nodo urbano caotico e degradato, prescelto dallo stesso Gehry nel1991: un’area industriale che si allunga longitudinalmente lungo il fiume e gli isolati della città ottocentesca alle spalle del museo, di fronte la sponda opposta del fiume Nervion con l’Università ed una collina sopra. In questa "intersezione" strategica per il recupero del settore urbano e per la riconversione dell’intera città allo stesso tempo, Gehry mette in campo tutte le sue competenze. 
 L’idea principale del progetto è la concatenazione tra i corpi che si intrecciano uno sull’altro: viene creata una piazza su cui gravita la biglietteria al museo, un piccolo auditorium, ristoranti e negozi che connettono il complesso alla città. 
 All’interno, un atrio di 50m di altezza consente grandi installazioni e disimpegna tre livelli di gallerie, un ampio ascensore ed i vari corpi espositivi. Gli uffici, i depositi, e le altre funzioni si inseguono per terminare con un corpo allungato e arcuato, alto 30m e lungo più di 100, che si incunea sotto il ponte.


 L’opera è tra le più importanti della fine del Novecento per diversi punti tra loro fermamente concatenati. Gehry riprende, nell’articolazione dei corpi di fabbrica, temi dinamici della plastica futurista. In particolare, sotto l’illuminazione notturna, l’edificio appare proprio con le sue traiettorie slanciate e curvilinee, nelle collisioni e incastri dei pezzi rimanda ad un universo dinamico in costante movimento. Ma, seppur la via espressiva sia la prima che emerge dal progetto, quest'opera di Gehry intesse relazioni nuove con tutta una serie di importantissimi altri aspetti del progettare. 
 Dal punto di vista sociale, il museo ha preso il posto delle chiese quale condensatore sociale e l’investimento per la sua costruzione è stato ampiamente vantaggioso, in quanto il pellegrinaggio è un obbligo nel nuovo consumo culturale. Dal punto di vista formativo, il grande atrio centrale è lo spazio dell’altare, il corpo allungato e arcuato, che ospita le grandi installazioni e si incunea sotto il ponte che borda l’area, è la navata. E, accanto al ponte, come una vera cattedrale contemporanea, non vi può non essere un campanile. Una torre per la vista che l’architetto realizza come una forcella slanciata verso il cielo e segnala il nuovo simbolo contemporaneo dal percorso lungo il fiume. 
 Le traiettorie futuriste e il ruolo simbolico dell’edificio non hanno trascurato certo il rapporto con la città. Le articolazioni plastiche del progetto non sono infatti concepite soltanto per la loro forza scultorea, ma, al contrario, si connettono fortemente all’intorno. Gehry sceglie per il progetto un’area industriale semi abbandonata tra il centro e le nuove espansioni periferiche e che si snoda lungo il fiume, e interconnette i tre poli, dimostrando come con una concezione plastica, simbolica e urbana insieme si possa valorizzare un’area di basso valore e riagganciare la città al suo fiume e la periferia al centro. L’architettura diventa così fatto urbano (urbanscape) non nella direzione conservativa e regressiva immaginata da Aldo Rossi, ma nell’esatto contrario. Questa derelitta e caotica area di Bilbao diventa così protagonista di una nuova idea di architettura che incorpora il sentire che attraversa la vitalità dell’arte pop-espressionista e il cheapscape
 Traiettoria, allusività simbolica e urbanscape entrano in un rapporto fortissimo con l’organizzazione funzionale del progetto. L’edificio propone ambienti completamente differenziati per i diversi usi: otto sale chiuse e regolari per opere tradizionali, una grande navata per opere di notevoli dimensioni, un atrio per installazioni verticali e una serie di ambiti di medie dimensioni per mostre monografiche di artisti contemporanei. È la macchina espositiva di maggiore funzionalità mai costruita. 



SPAZIO SISTEMA VERSUS SPAZIO ORGANO 

 Dall’idea di spazio organo, tipica di buona parte del Novecento, con il Museo Guggenheim a Bilbao si passa ad una nuova concezione, lo spazio sistema.
 Per spazio organo si intendeva lo spazio che si conformava alla funzione che era chiamato ad assolvere. Il Museo Guggenheim di New York, terminato quaranta anni prima di quello di Gehry a Bilbao, ad opera di Frank Lloyd Wright, conforma lo spazio per  sulla base di una funzione-organo. La rampa elicoidale è un modo nuovo di fruire l’arte contemporanea e, sulla base di questa modalità funzionale, l’architetto organizza e gerarchizza tutte le altre scelte del museo. 
 L’idea di spazio sistema, invece, implica che la creazione di un edificio non sia basata prioritariamente sul suo funzionamento interno, ma su una maglia molto più complessa di considerazioni. Si tratta di scelte che sono per molti versi “indipendenti” l’una dall’altra anche se si muovono sinergicamente a creare l’opera complessiva. Il rapporto con l’ambiente circostante, la costruzione, la spazialità, l’espressività, e la funzionalità, invece di essere concepite come un insieme concatenato gerarchicamente, funzionano nel Museo Guggneheim a Bilbao come fossero “equazioni indipendenti”; ciascuna viene ottimizzata al suo interno e passa il testimone all’equazione successiva, che, a sua volta, si ottimizza all’interno dei propri parametri. 

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